sabato 4 agosto 2012

Un racconto 'poliziesco'...

di Gian Marco Chiocci e Simone di Meo

Diaz, la polizia racconta

Operazione della Diaz studiata a tavolino come risposta dello Stato
L'irruzione vista con gli occhi di un poliziotto

L'assalto alla Diaz. I mesi di preparazione. E quello che successe dopo. All'indomani della sentenza della Corte di Cassazione, Gian Marco Chiocci e Simone di Meo hanno raccolto nel libro Diaz la testimonianza di Vincenzo Canterini, allora comandante del primo reparto mobile di Roma e creatore del 'Settimo nucleo sperimentale per interventi di ordine pubblico' e condannato a cinque anni, pena poi ridotta a tre anni e tre mesi il 5 luglio, per il blitz al G8 di Genova. L'altra verità, quella del poliziotto che si sente tradito dalla polizia.
Quello che segue è un estratto del capitolo in cui Canterini racconta l'assalto alla Diaz.
Operazione della Diaz studiata a tavolino come risposta dello Stato
Percepivo i prodromi drammatici di uno show studiato a tavolino, replicato l’indomani con la conferenza stampa organizzata dentro a un’aula della Diaz. I cronisti erano tutt’intorno a un tavolo rettangolare dov’erano esposte le armi sequestrate: mazze, picconi, sassi, caschi, coltelli, maschere antigas, magliette nere. E quelle due bottiglie di Chianti doc bevute alla salute dei grandi del pianeta e successivamente riempite con il liquido infiammatorio tipico della guerriglia.
L’operazione era stata pensata, ideata, orchestrata e coordinata come dura risposta dello Stato che fino a quel momento s’era fatto trovare impreparato in occasione del summit mondiale. Come spiegare altrimenti la presenza trafelata nel cortile, prim’ancora di rendere noto il numero degli arrestati e delle armi sequestrate, dell’addetto alle pubbliche relazioni della polizia?
Non so di chi fu l’idea di allertare anzitempo tivù, radio e giornali per magnificare un intervento dalle conseguenze tutt’altro che scontate. Ma fu sbagliata. Mi fu detto - ma a me sembrava francamente una cosa fuori dalla grazia di Dio - che i ragazzi che uscivano ammaccati dalla scuola erano rimasti feriti negli scontri della mattina; insomma, si tentò di darla a bere a me e a qualcun altro facendoci credere che quello fosse il lazzaretto dei black bloc.
NELLA SCUOLA ECHEGGIAVANO URLA DISUMANE. Gli anfibi degli agenti rimbombavano sordi inciampando sui contusi e slittando sopra vetri rotti, vestiti strappati, pozzanghere di sangue. Giuro, erano pozzanghere.
Dietro la porta che dava sulla palestra notai i primi feriti, piangevano accasciati contro la parete. Urla disumane, terrificanti, sembravano provenire dall’aldilà. Vidi gente calpestata dalle scarpe dei poliziotti. Presi la via delle scale facendo lo slalom tra panche rovesciate e gli ultimi agenti che mi sorpassavano mentre salivo. Avevo deciso di fare un sopralluogo in tutti i piani, ma il proposito sarebbe rimasto tale, a causa di ciò che vidi non appena alzai il piede dall’ultimo gradino della rampa.
AL PRIMO PIANO C'ERA LO SCANNATOIO. La mia vita andò in testacoda. Mi bloccai appena mi si presentò davanti agli occhi lo scannatoio al primo piano. Inizialmente pensai a un campo di battaglia dovuto a violente resistenze. Perché resistenze, checché se ne dica, a cominciare dalle cancellate sprangate e dagli oggetti lanciati dalla finestre, ve ne furono molte tra gli occupanti. Gli abusi dei rappresentanti dello Stato ci furono e furono ingiustificabili. Ma alla Diaz non fu tutto bianco e nero, i manifestanti non erano tutti buoni e i poliziotti non erano tutti cattivi. I miei capisquadra, per dire, raccontarono di scontri cruenti.
GOS, I REPARTI PIÙ CRUDELI DELLA POLIZIA. Ma i veri demoni, quelli che hanno approfittato dell’impunità dopo aver goduto a percuotere anziani claudicanti e ragazze nei sacchi a pelo, erano vestiti in jeans e maglietta con il fratino 'polizia'. Erano quelli che indossavano la divisa 'atlantica', i caschi lucidi e i cinturoni bianchi (i nostri U-boot erano invece opachi, i cinturoni neri). Erano anche gli appartenenti, così si diceva nell’ambiente, a un misterioso gruppo operativo speciale ribattezzato Gos.
I fantasmi del Gos, come i mazzieri in abiti civili, diversi da noi per minimi dettagli cromatici su caschi e cinturoni, avevano un tratto distintivo comune: il volto irriconoscibile, coperto da foulard o mefisti. Solo per questo l’hanno scampata.
QUALCHE AGENTE SOCCORSE I FERITI. Salendo le scale sentii un grido potente, categorico: «Ora basta! Basta! Tutti fuori». Feci qualche passo in più e trovai uno dei miei, inginocchiato e senza casco, che soccorreva come poteva una ragazza rannicchiata su se stessa. Aveva i capelli rasati, le trecce sulla nuca, il cranio fracassato da cui fuoriusciva sangue a fiotti e materia cerebrale. Il poliziotto che aveva dato lo stop alla mattanza e che vegliava sulla moribonda aspettando l’ambulanza era Fournier.
Nel cortile ritrovai l’assembramento di forze che aveva partecipato alla perquisizione e che lasciò quel camposanto di manganellati molto tempo oltre i quattro minuti di permanenza del Settimo nucleo. Venni a sapere poi che nella concitazione al primo piano, Fournier aveva preso di petto un grasso collega impegnato a simulare un coito su una ragazza carponi, e aveva inveito contro altri quattro agenti. Non era stato il solo a ritrovarsi a sottrarre i feriti dalla furia bestiale di gente pagata per difendere lo Stato.
ALLA FINE LA FARSA DELLE MOLOTOV. In quei momenti andò in scena la farsa delle molotov trovate altrove e piazzate all’interno della scuola a cose fatte. Non vidi niente e seppi quel che avevano combinato solo successivamente, dai giornali.
Provarono a tirarci addosso pure quel fango poiché chi aveva partecipato materialmente al trasporto delle bottiglie in un sacchetto di plastica azzurro era una vecchia conoscenza del Reparto mobile di Roma: il vicequestore Pietro Troiani. Se ne era andato mesi prima per sue esigenze personali, e a Genova, per quanto ne sapevo, era alle dipendenze di Donnini.
Cosa sia successo con quelle bottiglie non lo so. Non l’ho mai saputo. E nessuno saprà mai com’è andata davvero perché il tempo per parlare è scaduto con la Cassazione.
IL FUNZIONARIO CHE PARLA NON À GIUDA. In questa storia l’unico che ha portato la croce trovando la forza di rompere la consegna al segreto è stato Fournier. Non sto qui a giudicare, a dire se ha fatto bene, se ha fatto male, se avesse dovuto dirlo prima, se il segreto se lo sarebbe dovuto portare nella tomba perché siamo tutti una famiglia e i panni sporchi non si lavano all’aperto.
Il riferimento alla «macelleria messicana» nella Diaz, nel verbale del 2002, e alle «colluttazioni unilaterali» raccontate durante il processo, con la descrizione di cinque poliziotti che menavano calci come asini su poveri cristi terrorizzati a terra, ha fatto il giro del mondo e per alcuni colleghi quel funzionario è diventato un Giuda. Ma non è un Giuda.
Mi chiedo, e chiedo a chi indossa la divisa e legge queste pagine: peggio lui o i Ponzio Pilato che nell’ombra hanno picchiato, tramato, depistato rovinando colleghi che sapevano innocenti?

cronaca/diaz-la-polizia-racconta_4367560072.htm

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