Il Mifid e le sue conseguenze
La gestione del risparmio
C’è qualcosa di nuovo nel mondo dei fondi italiani, anzi d’antico. Si
teme infatti che l’industria del risparmio gestito vada ko e che si
possa arrivare nel settore a un danno complessivo di 170 miliardi di
euro (stima di Borsa e Finanza) che, dopo aver stremato le gestioni
patrimoniali in fondi (Gpf), si allarghi alle gestioni patrimoniali
mobiliari (Gpm).
Già il 2007 si era chiuso con una raccolta netta dei fondi promossi da intermediari italiani (fossero di diritto estero o italiano) che presentava un rosso da 53,1 miliardi di euro. Il campanello d’allarme poi è scoccato con la cifra record di riscatti a gennaio 2008: un deflusso da 19,1 miliardi di euro che ha finalmente smosso le autorità sull’argomento e spinto la Banca d’Italia e la Consob a mettere mano all’annoso problema.
D’altronde la crisi del risparmio gestito all’italiana è ormai tanto grave che qualcuno teme che, più che un campanello d’allarme, quello di inizio anno sia stato il rintocco di una campana a morto. Qualcun altro, però, si è già rimboccato le maniche e ha cercato, in buona o cattiva fede, di trovare nuove soluzioni a questa vecchia crisi.
Finisce così sul banco degli imputati la Mifid, la direttiva europea sui mercati finanziari, (Market in Financial Instruments Directives) che rende quasi impossibili le retrocessioni, ossia i versamenti delle commissioni o di loro quote dalle Sgr (Società di risparmio gestito) alle banche che le controllano.
Anche perché non ha altro obiettivo che creare un unico mercato all’interno dell’Unione Europea per le transazioni degli strumenti finanziari, per aumentare la sicurezza degli investitori e promuovere la competizione in Europa. In pratica la società di gestione del risparmio, ossia quella con cui le famiglie o le aziende hanno a che fare quando comprano o vendono quote di fondi e altri strumenti finanziari, versa tramite la retrocessione (in inglese inducement) una percentuale notevole delle commissioni alla banca madre, ossia alla banca che la controlla.
Le retrocessioni non sono altro che “oneri impropri”. Un sistema diffuso di sfruttamento delle proprie Sgr, insomma, che però adesso la Mifid rischia di far saltare e che quindi ha già spinto le banche a correre ai ripari, col rischio di affondare la già malata industria del fondo italiano. Le banche, infatti, hanno cominciato a smontare i propri fondi per cercare delle soluzioni alternative.
I vari gestori temono che, essendo diventati meno convenienti per le banche e godendo purtroppo di prestazioni per vari motivi assai inferiori a quelle della concorrenza straniera, sia suonata l’ora della ritirata. Per il risparmiatore il rischio rimangono i prodotti della finanza strutturata, delle assicurazioni e dei prodotti “a capitale garantito o protetto, ovvero con strumenti con una struttura dei costi più opaca” (definizioni di Assogestioni).
Potrebbe infatti essere questo - è il timore di Assogestioni - l’unico nuovo lido possibile per il pubblico risparmio. Si potrà certo dire che la tassazione italiana a volte svantaggia i fondi nazionali su quelli esteri. Si potrà anche dire che il clima pesante delle borse non favorisce i fondi a componente azionaria.
Di certo, però, le prestazioni dei fondi italiani sono da anni inferiori ai benchmark. Di certo la struttura integrata fra banche ed sgr ha destato più di un sospetto di conflitto di interessi. Di certo, in definitiva, il rendimento di questi strumenti (di diritto estero o nazionale che fossero) si è dimostrato inferiore a quello dei colleghi esteri.
Sembra dunque difficile che i risparmiatori italiani possano un domani rimpiangerli. Non diamo la colpa del loro fallimento alla Mifid, però. Anche se da un recente sondaggio effettuato in Emilia Romagna, il 73% degli investitori non ha notato alcun vantaggio nella gestione tramite Mifid dei propri investimenti a fronte di un dato nazionale che si avvicina al 79%.
Mentre ben il 91% vorrebbe evitare di compilare il modulo ma avere garanzie precise su ciò che va a sottoscrivere, individuandole in termini di guadagni reali.
Già il 2007 si era chiuso con una raccolta netta dei fondi promossi da intermediari italiani (fossero di diritto estero o italiano) che presentava un rosso da 53,1 miliardi di euro. Il campanello d’allarme poi è scoccato con la cifra record di riscatti a gennaio 2008: un deflusso da 19,1 miliardi di euro che ha finalmente smosso le autorità sull’argomento e spinto la Banca d’Italia e la Consob a mettere mano all’annoso problema.
D’altronde la crisi del risparmio gestito all’italiana è ormai tanto grave che qualcuno teme che, più che un campanello d’allarme, quello di inizio anno sia stato il rintocco di una campana a morto. Qualcun altro, però, si è già rimboccato le maniche e ha cercato, in buona o cattiva fede, di trovare nuove soluzioni a questa vecchia crisi.
Finisce così sul banco degli imputati la Mifid, la direttiva europea sui mercati finanziari, (Market in Financial Instruments Directives) che rende quasi impossibili le retrocessioni, ossia i versamenti delle commissioni o di loro quote dalle Sgr (Società di risparmio gestito) alle banche che le controllano.
Anche perché non ha altro obiettivo che creare un unico mercato all’interno dell’Unione Europea per le transazioni degli strumenti finanziari, per aumentare la sicurezza degli investitori e promuovere la competizione in Europa. In pratica la società di gestione del risparmio, ossia quella con cui le famiglie o le aziende hanno a che fare quando comprano o vendono quote di fondi e altri strumenti finanziari, versa tramite la retrocessione (in inglese inducement) una percentuale notevole delle commissioni alla banca madre, ossia alla banca che la controlla.
Le retrocessioni non sono altro che “oneri impropri”. Un sistema diffuso di sfruttamento delle proprie Sgr, insomma, che però adesso la Mifid rischia di far saltare e che quindi ha già spinto le banche a correre ai ripari, col rischio di affondare la già malata industria del fondo italiano. Le banche, infatti, hanno cominciato a smontare i propri fondi per cercare delle soluzioni alternative.
I vari gestori temono che, essendo diventati meno convenienti per le banche e godendo purtroppo di prestazioni per vari motivi assai inferiori a quelle della concorrenza straniera, sia suonata l’ora della ritirata. Per il risparmiatore il rischio rimangono i prodotti della finanza strutturata, delle assicurazioni e dei prodotti “a capitale garantito o protetto, ovvero con strumenti con una struttura dei costi più opaca” (definizioni di Assogestioni).
Potrebbe infatti essere questo - è il timore di Assogestioni - l’unico nuovo lido possibile per il pubblico risparmio. Si potrà certo dire che la tassazione italiana a volte svantaggia i fondi nazionali su quelli esteri. Si potrà anche dire che il clima pesante delle borse non favorisce i fondi a componente azionaria.
Di certo, però, le prestazioni dei fondi italiani sono da anni inferiori ai benchmark. Di certo la struttura integrata fra banche ed sgr ha destato più di un sospetto di conflitto di interessi. Di certo, in definitiva, il rendimento di questi strumenti (di diritto estero o nazionale che fossero) si è dimostrato inferiore a quello dei colleghi esteri.
Sembra dunque difficile che i risparmiatori italiani possano un domani rimpiangerli. Non diamo la colpa del loro fallimento alla Mifid, però. Anche se da un recente sondaggio effettuato in Emilia Romagna, il 73% degli investitori non ha notato alcun vantaggio nella gestione tramite Mifid dei propri investimenti a fronte di un dato nazionale che si avvicina al 79%.
Mentre ben il 91% vorrebbe evitare di compilare il modulo ma avere garanzie precise su ciò che va a sottoscrivere, individuandole in termini di guadagni reali.
MARIO MIRABELLI
CENTRO STUDI ANALISI STATISTICHE - MODENA
17 Aprile 2008 -
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