Nel 1997 Romano Prodi riuscì ad includere l'Italia nel primo gruppo dei dieci paesi partecipanti all'euro.
Promesse su inflazione che sarebbe stata debellata, crollo dei tassi di interesse, i dati pubblicati dagli enti statistici proponevano stime su un notevole surplus primario e una notevole riduzione del debito pubblico.
Oggi paghiamo, anzi la Grecia inizia a pagare due distinti concetti all'epoca volutamente non considerati da alcuno dei referenti la gestione dell'euro zona, seppur ristretta:
1. le grandi differenze di produttività, competitività, efficienza e capacità dei diversi Stati, che gli stessi avrebbero reso impossibili da azzerare;
2. le condizioni internazionali, all'epoca favorevoli, non hanno garantito continuità. In alcun modo.
Dieci anni dopo, nel 2007/2008 la crisi finanziaria americana colpì con violenza l'Europa e la fragilità dell'impianto di Maastricht divenne evidente: le sovrani dei paesi più deboli finirono sotto attacco e l'influenza congiunta di una crescita debole o negativa e di crescenti disavanzi spazzò via ciò che era rimasto dell'avanzo primario. L'impossibilità di svalutare, l'assenza di una domanda compensativa da parte dei paesi più forti, le regole del fiscal compact crearono le condizioni di asfissia nelle quali i paesi più deboli malamente sopravvivono oggi.
Venti anni dopo, oggi 2015, si ha una situazione ancora peggiore.
Non c'è stata da parte delle autorità europee un rimedio concreto alla spirale recessiva che le regole del fiscal compact hanno prodotto.
Le economie più deboli hanno esasperato la loro scarsa efficienza.
Zero riforme strutturali. Recessione e scarsa propensione alla crescita sono problemi che si presentano insieme, ma sono diversi e diversamente si sono manifestati in 20 anni.
A Bruxelles, Francoforte, Berlino, si voleva che i paesi poveri fossero (oltre al fiscal compact) ligi a programmare riforme strutturali. Una volta completate le riforme, tutte le economie torneranno a crescere. Si diceva, scriveva e pensava.
Ma ci si è concentrati sulla finanza, sulle banche, sulla gestione parziale dei debiti sovrani, buttando sotto il tappeto la polvere e i problemi e perdendo tempo sulle riforme strutturali.
Oggi 05/07/2015 ci troviamo con l'Istat che mette sull'avviso dicendo che la ripresa prosegue ma sul quadro macro economico pesa l'incognita relativa agli sviluppi della crisi greca. L'Italia ha alle porte un autunno freddo più dei soliti, con una finanziaria che non deve più vaneggiare sulla spending review ma la deve portare a termine, un taglio selettivo della spesa che vada almeno ad incidere su quel minimo di 10 miliardi di finanziaria.
Trovare i numeri politici, in aula, per tagliare su tutto il tagliabile, non sarà facile e la polvere sotto il tappeto non potrà più essere messa.
Questo è assimilabile con quello che non è riuscito a fare Samaras nel decennio scorso e oggi, tale indicazione ha portato ad una prevedibile vittoria del NO al referendum greco.
La Grecia oggi è come l'Italia davanti alla domanda se si voleva la Monarchia o la Repubblica.
Se vince il SI in Grecia vince come ha vinto chi ha votato per la Repubblica.
Il tema è che chiunque vince in Grecia, si avrà davvero per tutti una sconfitta totale e un baratro che con il Si o con il No porteranno la Grecia sull'orlo di problematiche sociali, come in Argentina nel 2001.
Di questo nessun politico se n'è accorto.
Mario Mirabelli
Consulente aziendale
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